martedì 3 agosto 2010

Relazioni


Su un blog che seguo leggo una bella riflessione su David Foster Wallace, di cui ignoro del tutto l'opera, cosa a cui, mi vado convincendo, dovrò porre presto rimedio, magari cominciando da Infinite Jest. Nel post è riportata una frase, ma avevo letto in rete tempo fa l'originale, più completo:

"L’ironia e il cinismo erano quel che ci voleva contro l’ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. La cosa grandiosa dell’ironia è che seziona ogni cosa e poi la guarda dall’alto per mostrarne le tare, le ipocrisie, le scopiazzature [...] Il sarcasmo, la parodia, l’assurdo e l’ironia sono modi efficaci di smascherare la realtà e mostrarne la sgradevolezza, ma il problema è: una volta che abbiamo fatto saltare le regole dell’arte, e dopo che l’ironia ha svelato e diagnosticato le brutture del reale, a quel punto che facciamo? L’ironia è utile per sfatare le illusioni, ma in America le illusioni le abbiamo già sfatate e ri-sfatate [...] L’ironia e il cinismo postmoderni sono ormai fini a se stessi, sono il parametro della sofisticatezza hip e dell’abilità letteraria. Pochi artisti osano parlare di altri modi di porsi per risolvere ciò che non va, perché temono di sembrare sentimentali e ingenui agli occhi degli ironisti stanchi di tutto. L’ironia è stata liberatoria, oggi è schiavizzante. In un saggio ho letto una bella frase, diceva che l’ironia è il canto dell’uccellino che ha imparato ad amare la propria gabbia. Non c’è dubbio che i primi postmodernisti e ironisti e anarchici e assurdisti abbiano prodotto cose egregie, ma il guizzo non si passa da una generazione all’altra come il testimone della staffetta, il guizzo è personale, idiosincratico [...] Dai giorni di gloria del postmoderno abbiamo ereditato sarcasmo, cinismo, una posa annoiata maniaco-depressiva, sospetto nei confronti di ogni autorità, sospetto di ogni limite posto alle nostre azioni [...] Devi capire che questa roba ha permeato la nostra cultura, è diventata il nostro linguaggio, ci siamo dentro a tal punto da non capire più che è solo una prospettiva, una tra le tante possibili. L’ironia postmoderna è diventata il nostro ambiente. [...] Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo vantaggio [...] Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore."

Poi in rete trovo, per caso, un'altra frase, di Franco Berardi, scritta ormai quindici anni fa:

"qui sta la specificità del totalitarismo mediatico rispetto al fascismo storico: esso non si fonda sulla repressione del dissenso, non si fonda sull’obbligo del silenzio, al contrario si fonda sulla proliferazione della chiacchiera, sull’irrilevanza dell’opinione e del discorso, sulla banalizzazione e la ridicolizzazione del dissenso e in generale del pensiero. Il totalitarismo di oggi non è fondato sulla censura del dissenso ma sul rumore bianco, sul sovraccarico informativo, sulla saturazione dei circuiti dell’attenzione"

In tutte e due le opinioni trovo della verità, e mi chiedo: è il cinismo, il disincanto, questa superficiale idea di intelligenza che si risolve in una battuta, la malattia di questi anni, o non è piuttosto un sintomo? Il "ritorno ai valori" che auspica la destra mignottara e pedofila non nasconde in realtà l'idea di fondo che niente sia davvero importante? Che senza la ragione, e senza le regole che ne conseguono, senza mani robuste a farle rispettare e bastoni ad armare quelle mani, l'uomo sia per l'uomo un lupo, pronto a divorare il suo simile perché in niente diverso dalle bestie feroci? E se sostituiamo Dio alla ragione, non è questo il medesimo pensiero che ha già armato eserciti e inquisizioni? Disincanto e cinismo, per quanto brillanti, non sono in fondo perdenti, nel momento in cui le intelligenze che li esprimono non si dedicano ad una ipotesi su cui ricostruire qualcosa? Mi torna in mente Wenders, il cielo sopra Berlino, che è la storia della rinuncia all'immortalità, perché se non c'è un limite a ciò che si può fare, in questo caso il limite del tempo a delimitare le nostre azioni, queste non hanno alcun senso. Il protagonista diventa mortale, ed ogni cosa che fa o non fa acquista importanza, perché diventa una scelta, una testimonianza di sé. Seguendo questo filo mi viene da pensare che se neghiamo il limite nell'uomo, se pensiamo che tutti gli uomini siano allo stesso modo pazzi, o assassini, o stupratori, e che ciò che siamo dipenda solo dall'ambiente se non dalla opportunità, dal caso, allora allo stesso modo le nostre azioni non hanno valore. E' il pensiero suicida di chi si lancia contro un'albero a tutta velocità, sghignazzando all'idea di come faranno poi a ricomporre il cadavere. Non credo a quello che si dice in giro, quello che serve oggi non sono i soldi, e nemmeno i soldati, ed immediatamente una voce mi suggerisce un etimo comune probabilmente inesistente ma comunque sensato, non penso servano fini polemisti, adesso, e nemmeno navigati sostenitori della realpolitik. Di tutta questa roba credo che ne abbiamo fatto il pieno, basta così, grazie. Quello che credo serva oggi sono spalle robuste e testa bassa, pratica, tanta, e poi occhi aperti per evitare il vecchiume che ci ha portato fin qui e da cui siamo circondati. Un paio di persone che certe cose le hanno capite prima e meglio di me le conosco. E non credo sia un caso che siano donne.

4 commenti:

  1. Le connessioni etimologiche sono azzeccatissime, altroché.
    (charta)

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  2. Bentrovata, vicina ;)
    Bello anche il tuo blog ma vedo che non lo aggiorni da un po'...

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