venerdì 25 febbraio 2011

La Nuit


Voglia di primavera, di caldo, di tempo per me. In questi ultimi giorni d'inverno respiro male e mi sveglio prima dell'alba, in apnea, la gola come carta vetrata, una fame d'aria che mi riempie di ansia. Io per contrastare mi imbottisco di aerosol, vitamina C, propoli, aspettando che passi anche questa e meditando visite primaverili all'otorino per fissare l'intervento che mi rimetta a posto il setto nasale, deviato anni fa in conseguenza di una buffa gara in piscina. La visita di lunedì all'Orto Botanico ha riscosso il pedaggio, mi dico, ma va bene così. Mi preparo una vasca calda, penso a cosa fare stasera e preparo un po' di valigia per Domenica.

giovedì 24 febbraio 2011

La miseria dell'abbondanza

E' da quando ho cominciato a scrivere qui che ogni tanto torna fuori questa idea di come il mondo sia cambiato dai tempi della mia infanzia, e mi chiedo se il cambiamento che io percepisco come peggiorativo lo sia realmente, o se si tratti semplicemente di nostalgia per i bei tempi andati, segno dell'età che avanza inesorabile, come peraltro mi fanno ben notare in altri luoghi. Non so, ma certo la differenza tra l'oggi e il prima è tanto profonda e ramificata in ogni aspetto del vivere che per trarre una conclusione è necessario cercare di capire un po' meglio da cosa derivi questa sensazione. Una delle cose che più sono cambiate, secondo me, è il significato di miseria. Una volta, la miseria era l'assenza di un bene materiale: un negozio misero era un negozio con poca merce, mobili vecchi, cose  che denotavano una mancanza di mezzi, di risorse. Per questo la prima volta che andai negli stati uniti rimasi tanto sconvolto: in una città come New York esistevano esercizi commerciali, perlopiù di grandi catene ma non solo, che certamente incassavano moltissimo e tuttavia erano trasandati, sporchi, approssimati, con tutto lo spazio disponibile riservato alla merce e solo a quella. Erano negozi altrettanto miseri, anzi di più, dei negozietti di paese della mia infanzia trascorsa nei mesi estivi nella campagna pistoiese o delle mercerie abbandonate nei lunghi pomeriggi passati a girellare tra le strade di novoli, che nei primi anni settanta era estremo periferico, per dirla alla Cattafi, ma di una miseria diversa, irredimibile perché non contiene più, in sé, la speranza in un cambiamento possibile. Il negoziante di periferia della mia infanzia ambiva ad un negozio più bello, pulito, spazioso, e se un giorno gli affari avessero girato bene certo lo avrebbe realizzato e tenuto, nella gran maggioranza dei casi, persino meglio del salotto di casa. Il lavoro infatti non era solo un mezzo per guadagnare del denaro, ma anche e soprattutto un modo per realizzarsi, un luogo in cui mostrarsi pubblicamente, un modo per coltivare la speranza nel domani. Oggi da Blockbuster sono restato incantato, come ogni volta, da quella identica miseria, da quel senso di rovina che aleggia sempre più, in Italia come nel mondo, nei nonluoghi della grande distribuzione. Dietro la facciata posticcia di lustrini e paillettes, magazzini immondi, terminali preistorici, sporcizia, mobili rotti che nessuno aggiusterà mai perché nessuno può sentire suo quel luogo, che appartiene infatti ad una entità astratta, inconoscibile, aliena. Un mondo di sottolavori sottopagati, intercambiabili, a bassissimo livello di specializzazione, con routine alienanti, corsi di avviamento, training aziendali, statistiche di valutazione e comunque precari, a tempo, a contratto, a chiamata. Posti indesiderabili in cui anche chi dovesse avere le qualità per restare ed il desiderio di farlo, resta di passaggio, a sua volta indesiderato, tollerato al più. Lavori come luoghi di transito, che appartengono a tutti, ovvero a nessuno, e di conseguenza squallidi, precocemente invecchiati, vandalizzati giorno per giorno dall'incuranza. Luoghi pieni di merce e vuoti di gioia, di cultura, di amore per ciò che si fa, qualsiasi cosa sia. Ovvio, non è certo solo colpa di chi ci lavora, ridotto a numero all'interno di una struttura dalle dimensioni incalcolabili. Quando lavori in una azienda di dieci persone e sei l'ultimo, sei il decimo: il tempo per arrivare al terzo posto è calcolabile, misurabile, rapportabile alle ambizioni e alle speranze di ognuno, il rapporto con chi siede al primo posto e decide cosa si fa il giorno dopo è un rapporto umano, se pur di lavoro, e lui stesso è parte di quella azienda, decide del tuo futuro ma anche del proprio. Se in una multinazionale sei il ventimilaequalcosesimo, sei una formica operaia e nient'altro, la scalata risulta inaccessibile, la speranza estinta, la tua vita viene decisa da persone che non vedrai mai e per le quali non esisti se non come statistica, come percentuale nei costi e ricavi, e a loro volta spesso altrettanto precarie nell'atteggiamento se non nella condizione economica, legate ai risultati raggiunti, pronte a cambiare azienda alla prima occasione, a volte con buonuscite spropositate, altre con le loro cose in una scatola di cartone. Nel mondo capovolto, l'abbondanza nasconde la miseria morale, l'irresponsabilità condivisa. 

martedì 22 febbraio 2011

Lusso


L'unica ricchezza dell'uomo, è il tempo, riflettevo giorni fa. Ogni altra cosa si può accumulare, il tempo no, lo si spende soltanto, finché si resta senza. Partendo da questo allegrissimo presupposto, cosa c'è di più lussuoso di una giornata inaspettatamente libera, da dedicare a se stessi? Sfogliando le guide della città alla ricerca di un museo inesplorato mi imbatto in uno spazio a me nuovo che mi tenta con l'orario inusitatamente lungo di apertura ed una vaga promessa di solitudine. Io, nella mia ignoranza che scopro ogni giorno più profonda, in questo gioiello incastonato nel centro di Firenze non ero mai stato e quindi chissà, magari in primavera sarà una bolgia impraticabile invasa da turisti e scolaresche, ma a vederlo così, in questo inizio di primavera, con le margheritine che timide si affacciano in mezzo a quello spagliolìo di piante di ogni tipo, a me è sembrata un'oasi di pace e di silenzio, fuori dal tempo e dallo spazio della città, come se la natura vegetale avesse imposto i suoi ritmi all'ambiente che la ospita fino ad influenzare l'ignaro visitatore che, tra una passeggiata e l'altra, si trova a dipanare il filo della giornata tra gli arbusti, dimentico di tutto meno che di sé e di ciò che osserva, odora e tocca. Girovagando fra le piante mi sovvengono pensieri lenti e banali, osservando alcune piante esotiche ad esempio mi viene da pensare che davvero paiono disegnate con un tratto giapponese, orientale, e che invece le piante europee si riconoscono subito per il disegno familiare. Il che è una sciocchezza, dato che, mi rendo conto dopo qualche istante, è evidente il contrario: è l'arte che si ispira alla natura e quindi il tratto dei disegni giapponesi deriva dalla forma delle piante e della natura di quei luoghi. Tornato nel giardino la prima cosa che noto sono i fiori gialli del corniolo che svettano sul cielo azzurro, e di cui mi riprometto di assaggiare i frutti, sempreché sia possibile trovarli da qualche parte. 


Già, perché nel vagare tra le aiuole mi rendo conto ad un tratto di esser capitato in una zona in cui si coltivano le varietà di erbe commestibili della toscana. Un centinaio, forse più. Quasi tutte si possono consumare in insalata, e la cosa sconvolgente è che ne conosco al massimo cinque, ne consumo abitualmente un paio. Allora verrebbe voglia di mettersi a piluccare, imbandire un ciotolino e giù, un pizzico dell'una, uno dell'altra, un filo d'olio bono e via, assaggiarle, scoprirne il gusto ingiustamente obliato, scomparso dalle cucine, dalla memoria, dalla cultura di un mondo ormai abbrutito, addomesticato al gusto delle cinque varietà di insalata che  propone la grande distribuzione. Nella serra degli agrumi scopro persino un limone cedrato fiorentino, bellissimo, bitorzoluto e fiero, di cui ignoravo totalmente l'esistenza e che adesso dovrò in un modo o nell'altro procurarmi, quantomeno per conoscerne il sapore. Nelle serrette migliaia di piante dalle regioni più calde del pianeta, impossibile citarle tutte, ma con l'iPhone riesco a riprendere una pianta dalle foglie meravigliose ed una piantina minuscola dalle foglie ricoperte da una fitta peluria viola, eccole qui. 



Prima di tornare nel mondo con la promessa solenne di ritagliarmi il tempo per tornarci a primavera inoltrata, mi fermo a guardare la meravigliosa corteccia di un'albero che mi ricorda i quadri del mio amico Luca, così maledico me stesso per non essermi ancora rassegnato a comprare una digitale e la Ilford per essere fallita insieme a tutta una idea di fotografia che non esiste più. Tiro di nuovo fuori l'iPhone e ci provo lo stesso. 


sabato 19 febbraio 2011

Donne


Niente da aggiungere.


(Marco Paolini, "Il sergente", tratto da "Il sergente sulla neve" di Mario Rigoni Stern)

domenica 13 febbraio 2011

Se non ora, quando?


E se non noi, chi?
Su un bel cartello era scritto: Il grado di civiltà di un paese si misura dal rapporto tra uomo e donna.

lunedì 7 febbraio 2011

Guru Meditation


Ognuno di noi ha i propri paletti, maginot invisibili che segnano un limite oltre il quale non consentiamo l'accesso a nessuno. Chi sconfina incontra il rifiuto, che anche quando è violento, come uno starnuto, è sempre una reazione di difesa. Il limite ci definisce, quindi chi ne è privo è indefinito, nebbioso, assente a sé stesso. Un pensiero radicato a fondo dalla religione e da madri desiderose di avere figli obbedienti e che non facciano fare brutte figure, è che occorra "essere buoni". Che si debba ossia accettare e sopportare ciò che gli altri ci impongono fintantoché le regole sociali dell'apparenza non siano soddisfatte e divenga quindi lecita una reazione. Purtroppo però, la società si occupa della realtà materiale: dei beni, delle proprietà, della integrità corporea. E' quindi socialmente inaccettabile il furto, il pugno, il graffio alla macchina, ma poiché la società non teorizza l'esistenza di una realtà umana non materiale, non la conosce e di conseguenza non se ne occupa. Di fronte a chi si ribella alla violenza non materiale del prete che pretende di importi la sua verità e reagisce col vaffanculo rabbioso, la mamma vede solo una maleducazione da estirpare, spesso ahimé riuscendoci. In questa falsa idea di bontà l'affermazione di sé, la capacità di erigere steccati a difesa dell'identità, viene spesso dimenticata. Per quanto mi riguarda, uno dei pochi paletti che sicuramente ho piantato riguarda il rapporto maestro/allievo. Base di questo paletto è che non esistono Guru, non esistono autorità se non quelle che ognuno riconosce momento per momento, tutti gli individui nascono e muoiono uguali. Ovviamente ci sono al mondo milioni se non miliardi di persone che ne sanno più di noi su qualche argomento, e l'apprendimento nasce appunto dal confronto con l'altro da sé, che è il motivo per cui stare al mondo. Ma questo non muove il paletto: se decido di fare immersioni, ad esempio, mi rivolgerò a chi ha più esperienza di me, perché mi spieghi come fare, limitatamente a quel momento e a quella specifica domanda. Ogni singola domanda apre un rapporto maestro allievo, ogni singola risposta lo esaurisce. Al termine delle domande, i rapporti tornano ad essere quelli di prima, e si andrà ad immergersi insieme, arricchendo ognuno la propria esperienza insieme a quella dell'altro. Spesso, nella realtà, non è così che funziona: essere investiti di una autorità è estremamente gratificante per il proprio ego, e i più continueranno a cercare questa gratificazione, tentando di mantenere in piedi quel particolare rapporto oltre il suo termine naturale. Se siamo due amici che fanno immersioni, il rapporto è quello, si va in mare, si fa esperienza, ci si confronta. Di fronte alla bravura dell'altro c'è ammirazione, di fronte ad una domanda c'è collaborazione. Se siamo in tre, il rapporto già cambia, non è più equilibrato. Se siamo cinque, c'è uno che fa il piano di immersione e gli altri collaborano. Se siamo in venti o più c'è un maestro, un vice, una elite e una base, ci sono lezioni e cene, e chi insegna ad immergersi mantiene la sua autorità anche quando siamo sulla terraferma e si parla della raccolta delle olive. E alla fine, in mare, nessuno va più. Roba da mentecatti, facile da riconoscere e facile da rifuggire. Ma esistono violenze più sottili. Una risposta a una domanda inespressa, un suggerimento non richiesto, sono di per sé una prevaricazione, un voler stabilire delle gerarchie. Peggio ancora l'approvazione, la condiscendenza di chi non si confronta con l'altro, né lo ammira, ma elargisce benevolenti sorrisi dall'alto della sua posizione. L'esortazione di chi di fronte ad un successo incita con un "vedrai più avanti" e mette così al centro se stesso, sottolinea il proprio vantaggio e sminuisce i passi compiuti dall'altro. L'incoraggiamento di chi ti dice che sei sulla buona strada, il paternalismo di chi esordisce pretendendo di spiegarti il mondo, esigono un vaffanculo che non può restare inespresso. Da maestro deriva ammaestrare, ma si ammaestrano le bestie da circo, con la frusta e lo zuccherino. Preferisco essere un ciuco e prendere a calci chi si azzarda a presentarmi le briglie.