lunedì 28 giugno 2010

Cedimenti strutturali

Saranno stati i quasi seicento chilometri distribuiti in due comode tranche una la mattina ed una la sera, tratto appenninico incluso. Sarà stata l'aria condizionata, nelle quasi sei ore di macchina e nelle altre otto ore in sala riunioni, che mi uccide ogni volta. Sarà forse anche che ultimamente la vita mi si è complicata un po', e ho meno tempo per me stesso, sempre in corsa tra lavoro, impegni familiari, una casa da non fare esplodere e un po' di vita da fare ogni tanto, che sennò che si vive a fare. Fatto sta che nel fine settimana febbre alta e gola in fiamme. Ieri sera il mostro nella testa urlava ancora i suoi devo devo devo e pensavo che forse oggi sarei tornato al lavoro, invece penso che stavolta non la ascolterò, quella voce familiare, e mi farò due giorni di convalescenza. Il mondo andrà avanti anche dopo che sarò morto, che comincino ad abituarsi.

giovedì 24 giugno 2010

E anche questa è fatta.


Ovvia via! Almeno quando la stampa non parlerà di tutte le porcate che il governo farà approvare nelle prossime settimane, giornali e telegiornali non avranno la facile scusa delle vuvuzuelas e dei mondiali per giustificare il silenzio.

Luttazzi e il killeraggio mediatico


Tutta la vicenda di Luttazzi va avanti da settimane ormai, protratta artatamente e con una certa disponibilità di uomini e mezzi, nonostante spiegazioni a mio avviso più che sufficienti, con l'evidente volontà di dimostrare qualcosa, di arrivare a un risultato. Niente di più del solito argomento ad hominem, contro chi con la sua arte da anni si dimostra pericoloso per un sistema che, difatti, lo esclude. Il peccato di Luttazzi è che costringe il pubblico a pensare. Chi se ne frega se usa una battuta di Hicks o di Carlin: Bill Hicks in Italia fino a un mese fa lo conoscevamo in sei: il suo genio era assolutamente inutile, sterilizzato, inutilizzabile perché nato in un contesto culturale diverso. Un peccato perché i suoi monologhi dei primi anni '90 sono di una attualità straniante. Quello che mi interessa di Luttazzi non è se sia più o meno saccente, antipatico, primo della classe: di sicuro lo è, e ci gioca, da anni. Quello che mi interessa di Luttazzi è che mi faccia ridere, ed in questo è bravissimo, ed è anche molto in gamba nel contestualizzare (diverso dal mero tradurre) le battute storiche dei suoi colleghi d'oltreoceano. Ma c'è una cosa che mi fa specialmente incazzare della polemica antiluttazziana: il vezzo di ricordare sempre che usa un nome d'arte, insieme a quello di ricordare che in gioventù fu consigliere comunale in quota DC. Io mi chiedo: come fa di cognome Daniele all'anagrafe lo sappiamo da anni, lo ha ripetuto in numerose interviste, quindi dov'è la notizia? In realtà si usa questo stratagemma ("Guardate, usa un nome falso!") per insinuare che abbia qualcosa da nascondere. Una accusa vaga, accennata, tipica di chi vigliaccamente lancia il sasso per ritirare la mano. Poi si rimarca il fatto che sia stato eletto come consigliere in quota DC per occuparsi di una fogna, come se nel fare il consigliere comunale ed occuparsi del proprio territorio ci fosse qualcosa di male, probabilmente nel convincimento idiota e populista che la politica sia sempre e comunque "una roba sporca". Se poi abbia aiutato o meno a risolvere quel problema, nessuno sembra interessato a indagarlo, e sarebbe invece l'unica cosa importante. Pare ci sia riuscito, e terminato il compito abbia scelto di dimettersi. Ma questo sarebbe dare notizie, quello che fanno altri, invece, si chiama spalare merda su un'avversario politico. Killeraggio mediatico, appunto. In molti casi finanziato, in altri, ancor più tristemente, gratuito. Complimenti.

mercoledì 23 giugno 2010

Il coraggio delle iene


Io non lo volevo scrivere, un post sulla morte di Saramago. In parte perché altri lo hanno fatto, con tatto e delicatezza sicuramente superiori ai miei, in parte perché non lo conoscevo abbastanza da sentirlo un vecchio amico, un compagno di strada. Ho letto solo due suoi libri ed uno di questi, Cecità, ho impiegato molto tempo a capire di cosa parlasse. Per superare l'idea del racconto fantastico mi ci è voluta la frase felice di una persona intelligente e sensibile che ha chiesto, conoscendo la risposta, "secondo te perché non diventa cieca, la moglie del dottore?". E io, che stupidamente avevo dato per scontato l'espediente letterario, mi sono dovuto rispondere: "perché vede la realtà umana dell'altro". Anche se poi, a onor del vero, per metterla in questi termini mi son dovuto leggere qualche libro in più. Insomma, avrei taciuto, forse anche convinto che di una vita non è importante il termine ma il lascito, e questo nel caso di Saramago è vasto e universale. Poi però sono arrivate le iene. Tra tutti gli animali, la iena è forse il meno bello, sicuramente il meno nobile. Non caccia le sue prede in campo aperto e di giorno, né affronta i suoi nemici a viso scoperto. Agisce perlopiù di notte, in branco, si nutre spesso di cadaveri e, se attacca, colpisce solo animali feriti o isolati. Con l'avversario di sempre, il leone, si confronta solo se in schiacciante superiorità numerica, diversamente fugge. Non rischia, la iena. Mai. Oggi che siamo tutti orfani della sua intelligenza e del suo rigore morale, è facile attaccare Saramago, facile vestire col suo nome pensieri e pensierini più o meno disgustosi. Lo fa L'osservatore romano con un articolo squallido, che da solo spiega meglio di ogni possibile saggio la statura morale della chiesa. Lo fa tale Lidia Lombardi, i cui meriti intellettuali e letterari restano incogniti anche dopo aver letto i suoi articoli su "il Tempo", dove solitamente recensisce film, e leggendo il suo articolo non riesco a non chiedermi cosa, nel limitato perimetro della sua mente, le faccia ipotizzare di avere un qualsiasi titolo per commentare Saramago. Lo fa Maurizio Maggiani, che evidentemente ritiene indispensabile attribuire un pensiero religioso, ovviamente postumo, a chi si è sempre dichiarato ateo e, presumibilmente, gli avrebbe risposto per le rime se solo fosse stato ancora vivo e nella non ovvia condizione di conoscere Maurizio Maggiani e il suo pensiero. Lo fa Maurizio Stefanini su "L'Occidentale". Che non è un giornale e nemmeno un blog. E' un qualcosa che aspira. E dire che per aspirare, nel PDL, c'è da mettersi in fila. Lo fa, infine, Arturo Diaconale su "L'Opinione delle Libertà" con una ottusità virulenta, senza nemmeno la dignità di firmare quelle quattro righe sghembe con altro che non sia un nom de plume, concludendo il suo attacco anonimo con un odioso "uno di meno". Per il suo epitaffio, che attendiamo di leggere presto, basteranno queste tre parole.

Per questo non lo volevo scrivere, un post su Saramago: perché in certi casi serve solo silenzio.

sabato 19 giugno 2010

Visioni.


Ieri sera ho visto Departures (Okuribito), in versione originale giapponese, coi sottotitoli. Film delicato, intenso, pieno di piccole cose. Qualcuno sul web lo ha criticato per la simbologia un po' didascalica delle pietre-lettera, a me è sembrato un modo lieve di suggerire dei legami, dei sentimenti, senza doverli per forza verbalizzare. Il tema che tratta richiede delicatezza, e i lunghi silenzi del maestro Sasaki spiegano tutto senza bisogno di dire nulla. Un film così suscita riflessioni. La prima, la più banale forse, è che si tratta per una volta di un film che racconta una storia, in maniera lineare: succede questo, poi questo, infine questo, punto. Si esce dalla solita trama di "difficoltà-evoluzione-successo-dramma-crisi-catarsi" che contraddistingue la gran parte del cinema occidentale, ed è un gran sollievo, una boccata di aria fresca per una storia che almeno somiglia alla vita vera. Persino il villaggio di campagna non ha niente di elegiaco, potrebbe essere un qualsiasi paesino ovunque nel mondo: in bosnia, negli stati uniti o sull'appennino pistoiese, non fa differenza. La differenza è tutta nel rapporto con la morte, che il protagonista si trova quotidianamente ad affrontare nel suo nuovo lavoro. Tempo fa leggevo in un blog che amo molto un post che diceva sostanzialmente: la società occidentale ci ha espropriato delle esperienze fondamentali: la nascita, la malattia e la morte sono relegate all'ospedale, la follia al manicomio, la criminalità al carcere. Di queste esperienze, le uniche due comuni a tutti gli esseri umani sono la nascita e la morte, così penso che aver relegato all'esterno della casa e della famiglia queste esperienze tolga qualcosa alla vita, la renda in qualche modo meno autentica, asettica, confezionata. Una rappresentazione in tre atti di cui vediamo solo il secondo, poiché inizio e fine si svolgono fuori dalla scena, diventando quindi o-sceni. Ma in un corpo morto non c'è oscenità, c'è solo assenza di vita. Un cadavere non è più persona, quindi, ma non è nemmeno una cosa, un oggetto. Nei gesti misurati e attenti del protagonista mentre lava e veste il cadavere c'è un profondo rispetto verso la realtà umana dell'altro, verso il suo dolore, la sua necessità di una figura terza che si occupi degli ultimi particolari con cura e affetto. Un film intriso di pietas non cattolica, totalmente distante da qualsiasi ipotesi religiosa, in cui il protagonista, nel mettersi al servizio degli altri, sospende ogni giudizio. Penso ai miei morti, qualcuno ho potuto vederlo, corpo immobile, lo stesso ma diverso, una specie di gioco di prestigio doloroso e rassicurante allo stesso tempo, e in un gioco di associazioni di idee mi torna in mente una tavola di Pazienza. Qualcuno invece non ho potuto, e forse è stato peggio. Se neghiamo ai sensi l'esperienza della morte, la partenza del titolo, appunto, rischiamo di non realizzare il distacco. Forse è anche questo, il senso.

venerdì 11 giugno 2010

Croste.


Finché dura l'infanzia è lecito fregiarsi di lividi, tagli, escoriazioni. "Hai visto che sbucciatura?" "Guarda che livido!". E giù a fare a gara a chi ha la crosta più grossa, a dire "noooooo!!" A chiedere "fa male?", frase a cui rispondere con una faccia sofferente ed un laconico "non tanto" preso a prestito da un film con John Wayne. Perché siamo uomini veri, mica bambini. Poi si diventa grandi e una sbucciatura diventa solo la prova che uno poteva stare più attento, ah ah. Dopo qualche giorno, finalmente arrivava il momento di levare la crosta. Si procedeva piano, prima saggiando il bordo, sollevandolo piano con l'unghia, poi se il dolore era troppo acuto si provava ad attaccare il bersaglio da una angolazione diversa. C'era chi picchiettava col dito, come se dovesse sbucciare un uovo, chi invece strizzava in una piega insolita la pelle sottostante, finché il muro cedeva e la crosta veniva via, rivelando una pelle sensibilissima e rosa, nuova nuova. Mi viene in mente questa immagine mentre penso alle definizioni, che buffo. Uno dice "sono un geometra", ed io ho sempre pensato che uno fa, il geometra, non è, un geometra. Nessuno è un geometra. E allora, uno, che cosa è? Uno è i rapporti che fa, mi dicono. Vero. Avevo un amico. Un fratello, nel bene e nel male. Qui sopra è uno dei due terroristi baschi. Un giorno mi disse "che buffo, tu hai sempre detto di non volere figli e ne hai due, io ho sempre voluto farmi una famiglia e invece sono solo". Qualche mese dopo se n'è andato per sempre, sbattendo la porta. E oggi avrei voluto dirgli che uno non si fa una famiglia. Uno costruisce dei rapporti, che poi magari cambiano, si chiudono, se ne fanno di nuovi. Mantieni aperto un canale con gli altri e quello che succede, se sei fortunato, è che magari un giorno scopri che sei davvero un padre pur non avendo senso paterno, perché hai un bel rapporto con un'altra persona che per combinazione è anche tua figlia, ma è prima di tutto un altro essere umano. Se ti chiudi agli altri, muori. Ma è vero che qualcuno ha un canale di comunicazione troppo stretto, che gli hanno negato la possibilità di nascere. Canale del parto, quindi, o forse trachea. Da lì comunque non si passa, occorrerebbe una tracheotomia, o un cesareo, e non sempre si ha la fortuna di trovare una levatrice o un dottore, in sala. Mantenersi aperti ha un costo, ovviamente. Ti riempi di lividi e sbucciature ma magari, col tempo, impari a riconoscere gli animaletti pelosi dalle iene feroci, scegli chi fare entrare e chi no, insomma stai attento, e ti ferisci di meno. Capita anche che dove hai preso un brutto graffio tempo fa sia venuta una crosta. Così nasce il non posso, il non mi riesce, che è una cosa che, d'istinto, mi ha sempre mandato in bestia, intimamente convinto che non c'è niente che non si può, finché siamo vivi. E allora attacca da una parte prima ma è dura, poi da un'altra e fermo che fa male, e allora aspettiamo ancora un po', finché poi insisti insisti la crosta viene via e il non posso non c'è più. Oplà. E sulla pelle nuova fare un solletico leggero, con la lingua. Questo succede, a chi resta.

mercoledì 9 giugno 2010

Hopper.


Sopraffatto dal devo, in passato ho dedicato la maggior parte del mio tempo a soddisfare aspettative altrui, con la certezza di non riuscirvi mai appieno. Oltretutto sempre con i medesimi risultati: frustrazione, senso di colpa, inadeguatezza. C'è chi ha antenne sensibili, chi invece un faro che illumina il cammino, come in una marina in stile Cape Cod. Io credo di avere forse qualcosa di simile, ma nella pancia, e per anni ho avuto anche la pessima abitudine di non darle mai retta, convinto com'ero che fosse la ragione a distinguerci dalle bestie. Così uno più uno fa due, e si segue sempre la cosa più logica, anche quando significa rinunciare ad una felicità possibile, o procurarsi da soli l'infelicità più totale. Bell'affare davvero. Ma le cose cambiano, e un ammutinamento profondo lascia la ragione in balìa delle onde. Quindi mi concedo il lusso di una vacanza improvvisa e improvvisata. Hopper mi parla sempre, in un linguaggio fatto di lunghi silenzi, di luci, di oggetti e scorci solitari, di uno sguardo capace di riconoscere la vita solo quando è rarefatta, senza mai parteciparvi completamente. La distanza tra una serenità sospesa e l'osservatore resta incolmabile, le ombre fitte, dove la luce non è diretta. Hopper Magritte e De Chirico sono stati la mia versione della trinità, ma niente è immutabile e magari domani saranno altre, le immagini che risuonano, chissà. Per ora passeggio tra le sale piene di capolavori, alcuni conosciuti, altri che si rivelano autentiche sorprese, pieno di stupore e meraviglia. Un incontro davanti a un succo di frutta incastrato tra mille impegni porta notizie gioiose e inaspettate, e alla fine della giornata mi ritrovo esausto e felice. La mostra a Roma è bellissima, chi se la fosse persa ha tempo fino a domenica, dopodiché toccherà andare fino a Losanna per vederla.

domenica 6 giugno 2010

Uccidere il Re.


In un pomeriggio di gite fuori porta e risate noto il gesto annullante, il dito che indica ruolo e posizione, e oggi la prospettiva è nuova, e scatta il rifiuto, il vaffanculo sano, che uno alza la voce e magari passa da stronzo, ma resta integro, e la sera si è capaci di felicità impensabili l'ultima volta che si è stati in quel giardino. Poi penso che se stavolta il gesto l'hai saputo riconoscere ce ne son state a pacchi di volte in cui ti ha ferito dentro, e fatto sanguinare senza che nemmeno capissi da dove arrivava, quel dolore sordo, quel senso di inadeguatezza. Mi torna in mente Pazienza, e quella vignetta di Zanardi: "Sono un lupo! Che non mi si chiami Fido, quindi". Io forse non sono un lupo, magari una Mangusta, chissà. Di certo non un cagnolino da salotto, da esibire e a cui far fare i giochetti. Seduto, a cuccia, dai la zampa. Vaffanculo e via andare. Nel frattempo mi arriva per le mani l'ultimo lavoro del mio amico Bruno, e tra una attesa, una pausa per recuperare una felpa opportuna e i tornanti che separano dal vino e dalle chitarre lo ascolto. Bellissimo. Con le budella dell'ultimo prete impiccheremo l'ultimo Re, recita. Sono giorni, mesi ormai, che mi arrivano echi di rivoluzioni, lotte, rivendicazioni. Non ancora ma presto, credo. Il vento porta profumi di ciò che sarà e il profumo stavolta è di sangue. Poi risate, amici, calorie. In forma liquida, soprattutto. Sfrutto la bronchite e la voce da Trans e mi produco in una imitazione di Amanda Lear sorprendentemente buona. Torno a casa, annaffio le piante sul terrazzo e ripenso ad un gesto lieve, tempo fa. Gli occhi trovano la prospettiva, a volte. Se sono molto, molto fortunati.

sabato 5 giugno 2010

Visioni.


Io che guardo un film italiano. Mah. Oltretutto trovandolo bello, intelligente, divertente. A volte, se uno è fortunato, succede: lo sguardo incontra una prospettiva diversa e d'improvviso trova il nuovo. Anche questo è un cambiamento che mi piace. Alcune battute sono fulminanti, gli attori sono formidabili, tutti. Ma soprattutto è diverso dalla maggioranza dei film italiani per un punto, per me fondamentale: la speranza. La maggior parte dei film italiani si chiude su una nota malinconica, drammatica, cupa. Da Benigni a Sordi a Virzì, il finale dei film italiani, la loro morale autentica, indipendentemente dalle vicende narrate, sembra essere sempre quella che non si supera se stessi, non si tradisce il fato, non si sfugge alle sabbie mobili di ciò che ci hanno insegnato ad essere. Nei film italiani manca drammaticamente il sogno, la capacità di reinventarsi, l'idea di un'orizzonte possibile, per quanto lontano. Una lezione come quella di Randy Pausch, in un paese a tradizione cattolica come il nostro, sarebbe impensabile, ed invece andrebbe trasmesso una volta al mese in tutte le scuole. Ma sto divagando. Insomma ho visto "Si può fare" ed è un film, fin dal titolo, diverso. Un manifesto di intenti, una idea che se non si spinge a ipotizzare una cura, trova comunque un cammino, un percorso. Si può fare tutto. Crederci è il primo passo, forse il più difficile.

venerdì 4 giugno 2010

Pensieri.

A volte mi capita di pensare a come tutte le piccole cose della nostra vita abbiano una storia dietro. Anche l'oggetto meno valutato è figlio di una idea, un progetto. C'è stato un'operaio, se non un'artigiano, che ne ha seguito la lavorazione, l'imballo, lo stoccaggio. Persone che ne hanno curato la vendita, navi che lo hanno trasportato e certo, ci sono state altre mani che hanno costruito quelle navi ed i container in cui ha viaggiato. Ci sono stati addetti che lo hanno controllato, riposto in qualche scaffale, impiegati lo hanno commercializzato all'ingrosso e commessi che invece ne hanno curato la vendita al dettaglio. Ci sono programmatori che hanno realizzato i programmi di contabilità, magazzinieri, grafici, tipografi, nella grande spirale dell'indotto che alla fine unisce persone lontane da una parte all'altra del globo. Tutto un piccolo esercito che non vediamo mai, che resta nell'ombra, persino del prodotto più misero, e grazie a quel prodotto si guadagna onestamente il pane.
Io questo lo so.
Però la prossima volta col cazzo che spendo 140 Euro per una cartuccia di toner.
Più volentieri scrivo a penna e vado a cena alla tenda rossa.

martedì 1 giugno 2010

Scrivere.

Il progetto del libro va avanti, più lentamente di quanto mi aspettassi. Ogni passo una aggiunta, una variazione, una limatura. Un lavoro da artigiano, quello sulle parole. E intanto le pagine aumentano, le cose scritte sono più di quelle da scrivere ed il rischio diventa quello di perdere il senso, il ritmo. Ho una indagine in corso, sentimenti complessi da rendere in poche righe, una ragazzina scomparsa, una svolta da rendere imprevista e imprevedibile. Scrivo.