domenica 25 luglio 2010

Goldrake




Trovo in rete questo video, e mi prende una botta di magone che levati, ci vorrebbe un disclaimer: "se hai più di quarant'anni occhio, che ora ti affondo" e in questo senso almeno io ce l'ho messo. Una roba così, che ti torna in mente quando eri bambino ed era tutto più semplice, spensierato, giocoso. Ed il pensiero successivo dovrebbe essere forse legato alla nostalgia, alla voglia di tornare a quegli anni e invece no, io non vorrei tornarci per niente, a quegli anni. I miei sono morti, delle case in cui ho vissuto non è rimasto nulla, non conosco più quasi nessuno che si ricordi me bambino, sono finalmente libero di inventarmi da capo, senza un ricordo a cui rendere conto: "eri così intelligente da bambino!" No, son sempre stato come ora, fatevene una ragione. I ponti sono bruciati e per me non c'è nessun giardino verde in fondo alla radura a cui tornare. Quindi non è stato questo il mio primo pensiero, guardando il video, sopraffatto dal magone e dalla nostalgia di cose che in realtà, lo so benissimo, non ci sono mai state, e quando c'erano comunque non erano affatto come le ricorderei oggi. Il mio primo pensiero è stato: "starò dando abbastanza serenità alle mie figlie? Le starò aiutando a costruire ricordi felici a cui, quando avranno la mia età, abbiano voglia di tornare?". Cazzo quanto mi piacerebbe potermi rispondere di sì.

sabato 24 luglio 2010

Pensiero fisso

E' l'unica spiegazione ai continui riferimenti di Silvio B. alla presidente del PD.
La vignetta è di Makkox, questo è il suo tumblr (che non so che voglia dire), e merita tutto.

venerdì 23 luglio 2010

Shutter Island


La mano scivola sul titolo e scrive Shitter Island, con un lapsus che preannuncia il giudizio finale, mi procuro di correggere, quantomeno per argomentare un po'. Scorsese è così. A parte le storie di mafia ogni altro film l'ho trovato lento, ampolloso, inutile. Questione di gusti credo, ma anche di una storia che sa di già visto, nelle inquadrature, nelle atmosfere, nel plot. Troppo facile l'ambientazione del manicomio/prigione sull'isola, scontatissima la tempesta, telefonato il ribaltamento di ruoli cacciatore/preda, già visto (e assai meglio realizzato, ad esempio in Identità) il colpo di scena finale, peraltro inverosimile. E' un film nato vecchio, ambientato negli anni '50 e forse per questo pervaso da una sorta di mollezza che lo avrebbe reso adatto al pubblico di allora. Nel frattempo sono successe un po' di cose, e non bastano l'ambientazione manicomiale, il cimitero abbandonato o il faro deserto a fare paura, né i flashback di guerra a dare profondità ad un personaggio che si potrebbe definire con una certa generosità monodimensionale. Ben Kingsley è bravo ma sono lontani i tempi de "la morte e la fanciulla", tanto per dirne uno, Di Caprio è da sufficienza e niente più. Imperdonabili poi alcune ingenuità come l'occasione irrisolta del braccio dei detenuti violenti, bella scenografia inutile, e soprattutto la scena della scogliera, in cui Di Caprio si arrampica su e giù per pareti a picco senza nemmeno sudare e con tanto di scarpe di cuoio. Scorsese non si preoccupa minimamente di montare della suspense, non si abbandona al montaggio ad effetto per fare paura, fa un uso sconcertante della colonna sonora, che carica di tensione alcune scene (come l'arrivo alla struttura nei minuti iniziali) per poi sciogliere la tensione senza che niente nella regia giustifichi l'una o l'altra scelta. Insomma un film brutto, da cui stare alla larga, di cui salvo solo la scena del sogno iniziale, con la cenere che cade nell'appartamento a segnalare lo scorrere del tempo e l'arrivo dell'incendio che ci risveglierà. Avesse fatto di quella scena un videoclip, sarebbe stato bello.

martedì 20 luglio 2010

L'amico di famiglia


Parte il film e faccio subito caso alla splendida colonna sonora, poi scopro che è del solito bravissimo Teho Teardo che ha musicato La ragazza del Lago, altro piccolo capolavoro di compostezza, altro stupore per un film italiano che non innova, non rinnova ma comunque realizza un prodotto decente, recente, che non sfigura di fronte ai cugini francesi o spagnoli. Che di per sé è una specie di miracolo. Comunque il film comincia e subito mi conquista questa sequenza di gesti rallentati, un poco in posa ma va bene, il rischio di citare la Riefenstahl viene abilmente evitato dalla cornice di lenzuola stese ad asciugare, che diventano luogo geografico ed insieme luogo della memoria. L'agropontino è terribile e meraviglioso nella architettura razionalista e nei non luoghi delle città di fondazione, le inquadrature tese tra surrealismo e realismo magico, con una gondola che attraversa un acquapark, così perfetta da far pensare che non sia geniale invenzione cinematografica ma ancor più fantastico assurdo quotidiano. Il cowboy veneto di Bentivoglio conquista con la sua devozione ad un immaginario che non può appartenergli e a cui comunque non riesce a sfuggire, Giacomo Rizzo dà vita ad un eroe negativo credibile, odioso e sconfitto sempre, ben prima del finale, anzi soprattutto perdente quando prevarica, distrugge, sporca, perché a questo pare averlo lombrosaniamente inchiodato la vita. Geremia l'usuraio è ricco, ma ruba al supermercato, cerca sulla spiaggia qualche spicciolo, vive in un tugurio, beve acqua del rubinetto e passa le sere a pulire la madre malata. Geremia l'usuraio è un poveraccio, anche con un milione di euro in banca, perché non desidera. Quando ruba, non è per desiderio verso l'oggetto della ruberia, sia una merendina o un'amplesso, ma per il gesto in sé. Rubare, risparmiare, accumulare. Di per sé. Geremia l'usuraio è malato perché ciò che lo fa felice è il denaro, non quello che il denaro può comprare. Ma il denaro è un simbolo, accumularlo è roba da collezionisti. E questa, per me che nel denaro non riesco a vedere valore fintanto che non è speso, trasformato in qualcosa di reale, è una chiave di lettura potente. Il vero ricco è chi riesce ad ottenere ciò che lo rende felice. Un chilo di pane è la felicità per chi ha fame, perché più di tanto non puoi mangiarne, non puoi riempirti. Il denaro è diverso, non puoi abbuffartene, non può mai essere abbastanza. Uno che si innamora del denaro ha confuso significato e significante, e quindi non sarà mai felice, non si sentirà mai ricco. Laura Chiatti, bella-solo-bella nel film chissà se per bravura o naturale disposizione diventa agente di cambiamento, e nella sua ambizione di vendetta finisce per offrire al suo carnefice la migliore occasione di un nuovo inizio, di una felicità che, liberato dalla madre morente e dalla ricchezza inespressa diventa, per quanto improbabile, quantomeno concepibile.

mercoledì 14 luglio 2010

Aquila


La realtà irrompe, interpretata con gli acquerelli in un blog di cui mi arriva notizia, e d'improvviso la voglia di bypassare qualsiasi canale di informazione, prendere la macchina e andare a vedere. E mi viene in mente che forse televisione e giornali creano una distanza "media", che mette sullo stesso piano avvenimenti vicini e lontani, così che L'Aquila, al di là dello schermo, sembra distante quanto Caracas New Orleans. Prendere e andare. Prossimo weekend, credo. Chi vuole si aggrega!

venerdì 9 luglio 2010

Le mani lo sanno


Nel racconto epico e specialmente nel topos della quête, la strada giusta è sempre la più difficile, per definizione. Tanto che quando l'eroe sceglie quella più semplice verrebbe voglia di dirglielo: "Noooo, devi passare di là! Hai presente quella strada piena di pericoli, difficoltà, mostri orrendi? Ecco, il tesoro è in fondo a quella. Che fortuna eh?" Ma l'eroe non si lamenta mai, né chiede indicazioni, del resto. Ora ci sono due modi per interpretare questa non banale equazione sulla strada buona=difficile. Se si interpreta la sua bontà come conseguenza della difficoltà, se il buono deriva dal difficile, allora si afferma questa idea medioevale della ascesi attraverso la sofferenza, della mortificazione della carne. Il premio alla sofferenza, premio che arriva sempre dall'alto, per intercessione divina, a cui la mortificazione di sé non dà diritto, ma di cui è prerequisito indispensabile. Orrore e delirio. Ma potrebbe anche essere che gli scrittori medioevali avessero preso un dato empirico (ciò che ci riesce difficile è ciò che ci fa bene) e lo avessero semplicemente interpretato al contrario. Proviamo a ribaltare il concetto e vediamo che succede, se ipotizziamo invece che sia la difficoltà ad essere una conseguenza della bontà, e non il contrario. Se fosse che sia il difficile che deriva dal buono. Che cos'è facile? Facile è quello che conosciamo. Lo abbiamo già fatto, sappiamo cos'è, dove ci porta, come e cosa ci fa sentire. Non c'è ricerca, non si mette in discussione nulla. Ciò che conosciamo, ci è facile. In ogni occasione tendiamo a rispondere come abbiamo sempre risposto, e nel caso si parli di comportamenti che ci fanno male, si parla di coazione a ripetere. Per evitarla occorre riuscire a dare una risposta diversa, quindi nuova. Ma rispondere in modo nuovo ad una situazione vecchia, è difficile. Molto. Così l'altra sera mi sono trovato ad avere a che fare col vecchio. Vecchia rabbia, vecchia tendenza distruttiva, vecchia voglia di chiudere le comunicazioni e cercare il distacco, l'allontanamento. Il vaffanculo. Che a volte può essere la risposta giusta ma non sempre e non con tutti. Ecco che allora le mani, sempre. Le mani lo sanno, come fare, mica quello stupido di cervello, sempre pronto a pontificare, a disquisire, a trovare ragioni. Mettersi all'opera, invece. Suonare qualcosa, dipingere, pulire la casa, smontare un motore. Ma anche solo apparecchiare la tavola con cura e improvvisare una cena che somiglia a un'aperitivo, è qualcosa che stacca il cervello e mi appaga, mi calma. Cercare l'apertura con caparbietà, al vaffanculo sostituire un'abbraccio, e improvvisamente qualcosa accade, e la rabbia diventa felicità. Una meraviglia, riuscirci.

sabato 3 luglio 2010

Il Futuro, negli anni '70



Sono nato nel 1968, in un periodo in cui tutto sembrava possibile. Ma questo non è un post sul '68. Che i sognatori di allora si siano venduti la possibilità di un cambiamento per un posto in banca, che abbiano trasformato idee in ideologie, che abbiano scambiato amore e indifferenza, non mi interessa. Critiche autocritiche analisi, basta: del '68 non se ne puole più, davvero. A volte mi viene da pensare che perché si realizzi una nuova rivoluzione toccherà andare a far fuori 'sti vecchiacci uno per uno, che finché campa il fantasma di questa rivoluzione mancata, ci sarà sempre la loro, a rivendicare un primato. E d'altronde, una rivoluzione che non spazzi via per primi i propri eroi, è impensabile. Io i primi mesi del '68 ero nell'utero di mia madre, per dire. Non poteva importarmi meno delle rivoluzioni fuori, ne avevo già abbastanza da fare per conto mio. Poi, un anno dopo che sono nato, un uomo camminava sulla luna. No, dico: un uomo! Sulla luna. Roba da matti. E io me lo son visto! Non che me lo ricordi eh, ma insomma, pare fossi lì, come tutti, a seguire l'imponderabile su un televisore in bianco e nero, in una casa d'affitto a riva degli etruschi. Qualche anno più tardi, una decina, mia zia mi diede un pacco di giornali che aveva tenuto da parte. Erano tutti i giornali e le riviste del periodo dello sbarco, compresa una edizione del messaggero con un LUNA strillato a piena pagina. Mai più vista una prima pagina così, credo di averlo ancora da qualche parte. Io giocavo coi razzi, il futuro erano le esplorazioni spaziali, e mio padre mi diceva "no, prima dovremmo esplorare il mare, è quella la frontiera più immediata" e mi parlava di case sottomarine. Quando andavamo ai giardini dell'orticoltura, che all'epoca avevano un'enorme locomotrice a vapore a far ruggine nel prato, accanto all'ingresso c'era una gelateria che faceva il gelato artigianale. Ogni volta mi sarei voluto fermare e prendermi un bel cono tutto cioccolata. Ma mia madre non voleva: "Prendi quello confezionato, è più sano! Quel gelato lì chissà chi l'ha fatto, magari c'è andata qualche mosca dentro!" e via di pinguino, che a me non è mai piaciuto con quel velo infinitesimale di cioccolato amaro diaccio marmato che non ne voleva sapere di sciogliersi in bocca. Erano anni così: Industriale era buono. Industriale era sano e controllato, e c'è da dire che gli artigiani di allora, in effetti, ad una mosca in più o in meno non facevano caso davvero. Per me che son cresciuto in quegli anni, il futuro era il dominio sulla natura, piloni di acciaio svettanti, mondi ordinati e astronavi nel cielo. Non ce l'avevano mica detto, che il futuro se l'erano venduto alle sette sorelle, alle multinazionali, alle banche. Oggi un pilone è solo un pilone, un pezzo di ferro che qualcuno dovrà rottamare e smaltire in modo che faccia meno danni possibile. Ma anche se il futuro che ci avevano promesso negli anni '70 ce lo hanno rubato, c'è una cosa che è impossibile rimuovere da chi, come me, ha respirato quegli anni. L'idea che l'impossibile non esiste. No dico: un uomo. Sulla luna! Ci pensate?

Tempo fa girando in macchina un sabato pomeriggio ho visto questo pilone, perfetto e solitario tra le colline toscane, e mi è venuto in mente che era questa, l'immagine del futuro, negli anni '70.