martedì 8 aprile 2014

Di fili rossi, spazi e ingombri



Ci sono cose che esistono, mi dico cercando di tirare un filo nuovo.
 
Il nostro corpo, muovendosi nello spazio, anche ad occhi chiusi, incontra la resistenza dell'aria, il piede calca il pavimento, la mano sfiora il muro, lo stinco incoccia il comodino, ed ecco perché muoversi ad occhi chiusi non è mai una buona idea. 

In ogni caso, le cose esistono ed occupano uno spazio e quando il corpo si muove, le incontra secondo le leggi della relatività generale. 

Anche le persone occupano uno spazio, il nostro stinco ce ne dà un esempio, ma quello fisico non è l'unico spazio che le persone occupano, anche il pensiero delle persone, la loro volontà occupano uno spazio ed infatti, di certe persone, diciamo che sono più ingombranti di altre, al punto tale da schiacciare gli altri col loro ego ipertrofico e costringere chi le conosce a far loro spazio. 

A volte queste persone sono inconsapevoli della propria mole e tanto indifferenti agli altri da non curarsi minimamente di chi resta schiacciato sotto il loro peso. Altre invece usano la loro massa con sadica determinazione, eliminando chiunque esista per uno scopo diverso dal dare loro attenzione e riverire il loro ego mostruoso. 

Ripenso a un me stesso dodicenne, sugli scalini di una chiesa di Bahia in un viaggio d'inferno, una ragazza dalla pelle scura e dagli occhi enormi mi lega al polso un nastro azzurro, il colore di Yemanja, e mentre stringe i tre nodi mi chiede di pensare a quello che voglio dalla vita, con forza. 

E la risposta è immediata: vivere senza disturbare nessuno. 

La risposta arriva accompagnata da una immagine, una torre piena di libri, l'idea che un dodicenne può avere di un composto e confortevole eremitaggio e, allora come allora, sembra avere perfettamente senso. 

Oggi so che quella è la risposta di un bambino costretto a confrontarsi con una persona ingombrante, annullante, violenta. Una persona a cui non si può sottrarre e a cui non ha la forza di opporre un rifiuto, un padre così enorme, gigantesco che l'unica salvezza è nel farsi piccoli e silenziosi, occupando meno spazio possibile e, per il futuro, la speranza che ci si concede è quella di non fare mai lo stesso ad altri, piuttosto la solitudine, il composto eremitaggio in compagnia dei libri. 

Non darsi importanza come contrappasso a chi l'importanza se l'è presa tutta, sempre. 

La soluzione sarebbe un rifiuto, un bel vaffanculo, uno spillo che buchi il pallone gonfiato, una personale Maginot da cui non retrocedere, per quanto stupida sia. No pasaran eccetera eccetera.

Ci sono un sacco di occasioni in cui il rifiuto ti salva la vita: di fronte alla stilettata dell'invidioso, ad esempio, che tenta di sminuire le tue realizzazioni, incapace di accettare i tuoi successi di fronte ai suoi peraltro evidenti fallimenti, occorre una risposta rapida, un vaffanculo leggero come una risata: Ah dici che potevo fare meglio? Mah, intanto io l'ho fatto e te no, ahahahahah. Tié, crepa. 
E la vitalità resta intatta.

Ma se la persona è davvero violenta, può strappare il rifiuto dalle mani, con un atto senza ritorno.

Seguo il filo, e penso alle mille volte in cui mi sono trovato a rimandare ciò che avrei voluto fare, di fronte alle richieste più disparate. 
Vieni al cinema?  Sì. Mi dai una mano a fare il trasloco? Sì. Vieni stasera a giocare a Risiko? Sì. Al concerto dei Pruffnir Skembolz? Sì.
 
Sempre sì, solo sì, che mi vada o no non conta, spesso accumulando impegni su impegni per non scontentare nessuno, prima il trasloco poi di corsa a giocare a Risiko e infine al concerto, incapace di dire no, incapace di deludere chi mi onora della sua amicizia, per quanto interessata.
 
E quando un amico mi chiede divertito, ma tu quando è che vieni per primo? Abbasso un poco la testa, sentendomi in colpa. 

Me lo ripete spesso, scrollando la testa: occupi uno spazio, se sali sull'autobus paghi il biglietto, esisti, quindi quando è che vieni tu per primo, cosa è che per te è più importante degli altri?
Ma io la risposta, allora, non ce l'ho.

Perché col tempo uno si abitua alle scelte altrui al punto da sentirle come proprie, se una cosa vada o non vada nemmeno lo sa più, si abitua non a scegliere ma ad essere scelto, a seguire gli altri nelle loro iniziative, persino divertendosi, o credendo di farlo. 

Anche perché, allora, una alternativa alle scelte degli altri, io, non so darla e una cosa che voglio io, per me solo, non so cosa sia. 

So essere solo per gli altri, mi dico. E quando gli altri non ci sono, allora non sono.

Ricordo il vuoto delle ferie, tutti occupati, tutti autonomi e io da solo. 
Perso, senza sapere cosa fare perché non c'è nessuno per cui, o contro cui, farlo. 
Non ci sono io.

Poi, pochi anni fa, una persona speciale mi sorride un poco delusa, raccontandomi di un uomo della sua vita che, al tempo in cui erano amanti, nemmeno le apriva la porta se non avevano fissato un appuntamento, perché aveva da fare le sue cose. E mi spiega che se non sono capace di essere solo per me, non posso nemmeno mai essere davvero con lei e che, se non imparo a scegliere me, non posso scegliere nessuno. E ricordo lo smarrimento e la rabbia di allora, pensando ma come, sto stronzo nemmeno ti apriva e io mi faccio in quattro ci son sempre e non va bene? 

No, non andava bene, oggi lo so.
E non va bene scomparire.
Non si può rendersi indispensabili, nessuno lo è.
Non va bene essere solo per.

Perché anche se ci son mostri ciechi ed enormi pronti a schiacciarti nel loro caracollare, ci sono anche persone belle e  e si ha voglia di abbracciarle e stringerle, e per questo occorre esserci, ed occupare uno spazio.

Non si è per, si è per essere in rapporto con.

La prima cosa nella vita che ho fatto solo per me, gratis, senza piacere o dispiacere a nessuno, è stata andare al giardino dei semplici, una mattina di quasi primavera di non molti anni fa, tanto che la trovate qui, a riprova del fatto che si nasce ad ogni età, continuamente.

E a questo ramo annodo il filo, prima di chiudere gli occhi.