sabato 19 giugno 2010

Visioni.


Ieri sera ho visto Departures (Okuribito), in versione originale giapponese, coi sottotitoli. Film delicato, intenso, pieno di piccole cose. Qualcuno sul web lo ha criticato per la simbologia un po' didascalica delle pietre-lettera, a me è sembrato un modo lieve di suggerire dei legami, dei sentimenti, senza doverli per forza verbalizzare. Il tema che tratta richiede delicatezza, e i lunghi silenzi del maestro Sasaki spiegano tutto senza bisogno di dire nulla. Un film così suscita riflessioni. La prima, la più banale forse, è che si tratta per una volta di un film che racconta una storia, in maniera lineare: succede questo, poi questo, infine questo, punto. Si esce dalla solita trama di "difficoltà-evoluzione-successo-dramma-crisi-catarsi" che contraddistingue la gran parte del cinema occidentale, ed è un gran sollievo, una boccata di aria fresca per una storia che almeno somiglia alla vita vera. Persino il villaggio di campagna non ha niente di elegiaco, potrebbe essere un qualsiasi paesino ovunque nel mondo: in bosnia, negli stati uniti o sull'appennino pistoiese, non fa differenza. La differenza è tutta nel rapporto con la morte, che il protagonista si trova quotidianamente ad affrontare nel suo nuovo lavoro. Tempo fa leggevo in un blog che amo molto un post che diceva sostanzialmente: la società occidentale ci ha espropriato delle esperienze fondamentali: la nascita, la malattia e la morte sono relegate all'ospedale, la follia al manicomio, la criminalità al carcere. Di queste esperienze, le uniche due comuni a tutti gli esseri umani sono la nascita e la morte, così penso che aver relegato all'esterno della casa e della famiglia queste esperienze tolga qualcosa alla vita, la renda in qualche modo meno autentica, asettica, confezionata. Una rappresentazione in tre atti di cui vediamo solo il secondo, poiché inizio e fine si svolgono fuori dalla scena, diventando quindi o-sceni. Ma in un corpo morto non c'è oscenità, c'è solo assenza di vita. Un cadavere non è più persona, quindi, ma non è nemmeno una cosa, un oggetto. Nei gesti misurati e attenti del protagonista mentre lava e veste il cadavere c'è un profondo rispetto verso la realtà umana dell'altro, verso il suo dolore, la sua necessità di una figura terza che si occupi degli ultimi particolari con cura e affetto. Un film intriso di pietas non cattolica, totalmente distante da qualsiasi ipotesi religiosa, in cui il protagonista, nel mettersi al servizio degli altri, sospende ogni giudizio. Penso ai miei morti, qualcuno ho potuto vederlo, corpo immobile, lo stesso ma diverso, una specie di gioco di prestigio doloroso e rassicurante allo stesso tempo, e in un gioco di associazioni di idee mi torna in mente una tavola di Pazienza. Qualcuno invece non ho potuto, e forse è stato peggio. Se neghiamo ai sensi l'esperienza della morte, la partenza del titolo, appunto, rischiamo di non realizzare il distacco. Forse è anche questo, il senso.

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