mercoledì 24 agosto 2011

Matti

Qualche giorno fa sono finalmente riuscito a partecipare ad una delle passeggiate organizzate da Chille de la Balanza all'interno dell'ex manicomio di San Salvi, luogo tra i più belli e pieni di memoria di Firenze. Tra le molte suggestioni ed emozioni, due in particolare. Tre diverse lettere, scritte da due diversi internati in periodi storici assai distanti. Due di queste lettere narrano la metamorfosi di Giacomo Tarantini, quella normale e ragionevole scritta prima della "cura" a base di elettroshock e reclusione nel sesto reparto uomini, e quella scritta dopo, quando ormai gli avevano fatto entrare dentro a forza le acca, ed era diventato Giachomho Vhon Taranthinhi, come racconta Ladoratrice.

L'altra lettera, però, è quella che mi ha colpito di più, grazie alla succitata Ladoratrice e ai suoi riflessi ferini posso oggi riportarla per intero. 

Eccola:

"Alcuni di noi spesso si trovano in manicomio perché la società non ha nervi abbastanza saldi per sopportarci.

Perciò prima sarebbe necessario curare la società alla quale ci dovremmo nuovamente inserire.

Un lavoro non regolarmente rapportato alle capacità fisiche e intellettuali di un individuo, credo che influisce molto negativamente sulla sua salute.

Un lavoro mal retribuito credo lo avvilisce e lo umilia e le arreca sempre danno alla salute e all'equilibrio mentale.

Un ambiente dove un ex ricoverato viene guardato o trattato (a volte sfottuto) come un essere diverso, non è abbastanza adatto.

La libertà è soggetta a limiti di usi e di costumi, ma molto di più è soggetta alle capacità finanziarie."

Angelo.

In quello che scrive Angelo la pazzia non si vede, ma i manicomi erano, e potrebbero essere di nuovo, luoghi in cui seppellire chi non fa comodo, per questioni di eredità, di convenienza o per motivi politici. A Volterra esisteva addirittura un reparto anarchici, come se l'anarchia fosse di per sé segno certo di squilibrio mentale, e a chi pensa che oggi questo non potrebbe succedere più consiglio la lettura di questo articolo sull'uso politico del TSO a Genova durante il G8. Il manicomio era un luogo in cui si perdeva ogni diritto, si diveniva meno che umani, oggetti da archiviare, in attesa dell'unica liberazione possibile, la morte. Dal manicomio infatti non si usciva, mai, nemmeno con le parole e, infatti, la corrispondenza in entrata ed in uscita dal carcere era semplicemente soppressa. Occorre preservare la memoria di ciò che è stato, perché la memoria dell'orrore è l'unico modo per essere certi che quell'orrore non torni.

13 commenti:

  1. E perchè secondo te tentare il suicidio per esempio è segno certo di squilibrio mentale?

    L'anno scorso scrissi un post al riguardo, non so se l'hai letto, ovviamente in chiave ironica ma è tutto vero purtroppo, dopo quei 4 giorni, uscendo ho provato ad aiutare una ragazza che nessuno faceva uscire fuori da quel posto allucinante, mi sono rivolta al telefono Viola contro gli abusi psichiatrici ma anche lì è stato complicatissimo trovare qualcuno che mi aiutasse...
    Il problema è davvero grave e TUTTI potrebbero rimanerne vittima, in maniera diretta o indiretta, per cui fa bene parlarne in giro.

    Ciauz :)

    http://orsabipolare.blogspot.com/2010/12/disforica-chi.html

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  2. @Orsa:
    Ho pensato a lungo se risponderti o meno, perché la risposta al tuo commento sarebbe stata senz'altro lunga e articolata, ma la questione che poni è interessante e merita un approfondimento.
    Partiamo dall'inizio.

    Mi chiedi: "secondo te tentare il suicidio per esempio è segno certo di squilibrio mentale?", e a me verrebbe la tentazione di fare un prologo che giustifichi e anticipi la risposta, ma lascio perdere e ti dico subito.

    Sì. Per me il suicidio è segno certo di uno squilibrio mentale.
    E lo dico avendo in merito più esperienza di quanta vorrei.

    Dopo aver anticipato la risposta, però, cerco di articolarla, se ancora sei lì.

    La prima cosa da dire, e nel post l'ho detta, è che il manicomio inteso come lager in cui internare a vita il "matto", va superato in ogni sua forma.

    La seconda cosa da dire però, secondo me, è che la malattia mentale esiste.

    Non siamo tutti belli ognuno nella sua diversità, non si parla di disagi o di diverse interpretazioni della vita: esiste uno stato di salute mentale ed uno patologico. Se non si parte da questo presupposto solo apparentemente banale e tuttavia ignorato dalla maggior parte di psicologi e psichiatri, è evidente che non esistendo una patologia non può esistere nemmeno l'ipotesi di una cura.

    Per capirci, se un tizio con le placche bianche in gola e la febbre a quaranta andasse dal medico e questi gli dicesse che non è niente, che la sua è solo una interpretazione febbricitante della vita, che quello è il suo modo di essere, la sua libertà, il suo destino, probabilmente il medico verrebbe radiato dall'ordine, perché appare a tutti ovvio che uno con le placche bianche e la febbre ha una infezione in corso e va curato con degli antibiotici.

    Questo purtroppo è esattamente quello che molti psichiatri fanno giornalmente, sul modello di Biswanger che aiutò materialmente Ellen West a portare a termine il suicidio, in quanto questo, a suo dire, rappresentava il suo destino, il suo completamento.

    A me quella di Biswanger pare follia, oltre che abdicazione totale al proprio ruolo di medico.

    Quindi il pensiero suicida non è normale, indica uno stato alterato del pensiero, un pensiero violento non verso di sé, come molti preferiscono pensare, ma verso il mondo.

    Il suicida non agisce violentemente solo contro se stesso come appare ad una analisi meccanica, il suicida fa una violenza, un annullamento verso tutto quello che lo circonda. Il suicida dice alla madre, ai figli, agli amici, all'uomo o alla donna che ama: "tu non conti un cazzo, tu non sei abbastanza per tenermi qui".

    La violenza non è uccidere qualcuno, che a quel punto non soffre più, la violenza è farlo vivere male tutta la vita.

    Trovare la forza per rifiutare la violenza di un suicida, e salvarsi la vita, è una delle cose più difficili. Almeno per me.

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  3. Certo che sono ancora qui :)
    Non avrei parlato pubblicamente di quella mia esperienza se non avessi avuto gli strumenti necessari per dibatterne con tranquillità.

    Ovvio che la malattia mentale esiste e in quei 4 giorni ho avuto modo di toccarla con mano, ma non era la mia (e lo sarebbe diventata esclusivamente se fossi rimasta lì dentro più a lungo).
    Quello per cui bisognerebbe battersi è il fatto che gli psichiatri non sono in grado di fare distinzioni tra i vari e molteplici aspetti di un disagio mentale, mettendo quindi in uno stesso reparto opedaliero persone "palesemente" fuori di testa con altre (come me) che in un momento della loro vita hanno attraversato l'apice inevitabile della depressione.
    E' questo che sostanzialmente trovo inaccettabile.
    Mi ci sono volute settimane per "riprendermi", ma non dal mio malessere ma da quello che avevo visto e vissuto in quelle ore di totale reclusione.
    Se lo scopo di questa prigionia (come non troppo velatamente mi ha lasciato intendere il primario quando me ne lamentavo) è quello di "punire" un gesto e indurre di conseguenza a non ritentarlo, allora è possibile che in molti soggetti l'esperimento funzioni (non è per tutti così) ma rimane di fatto un abuso contro la volontà di un individuo e un metodo decisamente discutibile.

    "Il suicida dice alla madre, ai figli, agli amici, all'uomo o alla donna che ama: "tu non conti un cazzo, tu non sei abbastanza per tenermi qui"."
    Hai centrato esattamente il punto, anche se è la conseguenza di un malessere a monte.
    Però mi viene da aggiungere: e allora?
    Cos'è veramente normale?
    Se il soggetto tenta di ripetere lo stesso gesto, una, due, tre volte, allora si che si sfocia nella patologia e certamente quella persona avrà bisogno di cure adeguate (non certo dentro un reparto del genere però, perchè lì può solo peggiorare velocemente).

    Sicuramente non concorderai con quello che sto per dire,ma io comunque sono dell'idea che il suicidio dovrebbe essere legalizzato; è un po' come quando ci si annoia ad una festa e si decide di tornare a casa, perchè qualcuno dovrebbe trattenerlo a forza in quella festa visto che non si sta divertendo come gli altri?
    Non riesco a vederlo come un atto di follia e in molti casi è frutto di ponderazione e convincimenti profondi, un gesto egoista certo, ma quale in definitiva non lo è davvero??

    La cosa che più di tutte mi è dispiaciuta infatti è stata quella di causare dolore e preoccupazione alle persone che mi vogliono bene e che non possono perdonare facilmente il fatto che abbia voluto voltargli le spalle, anche se solo per un momento della mia vita.

    Come mi sembra di intuire che avvenga per te.

    La tematica del suicidio comunque è estemamente complessa per poterla dipanare in poche parole.
    Però mi ha fatto piacere che tu abbia replicato, tra un cazzeggio e l'altro ogni tanto mi sta bene un po' più di riflessione.

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  4. Sulla prigionia di cui parli mi sono già espresso, anche se certo, occorre un luogo dove poter trattenere, anche fisicamente, il malato dal compiere atti irreparabili.

    Lo dici tu: non sei fuori di testa, ma in quel momento hai attraversato l'apice di una depressione. Trattenere il suicida dal proseguire nel suo intento è la premessa indispensabile perché una cura sia ipotizzabile: non si possono curare i morti.

    Lo scopo di quel contenimento non dovrebbe quindi essere mai punitivo, ma semplicemente necessario ad una cura. Ci sono stati psichiatri che hanno lottato fisicamente con i propri pazienti per ore ed ore pur di impedire loro il suicidio, e forse anche perché quella lotta, quella fisicità dava corpo ad un interesse per l'altro, che non si esprime con una camicia di forza.

    Per rispondere alla tua affermazione, "Se il soggetto tenta di ripetere lo stesso gesto, una, due, tre volte, allora si che si sfocia nella patologia e certamente quella persona avrà bisogno di cure adeguate"

    Ma se ci riesce alla prima, poi come lo curi?

    Cos'è veramente normale? Solo un genio potrebbe rispondere a questa domanda e forse l'ha anche fatto, ma io un genio non sono e per usare parole mie ti dico che cosa non è normale, senza alcuna pretesa di completezza.

    Il padre che scorda la figlia in auto sotto il sole, non è normale.
    La madre che getta il bambino dal terzo piano, non è normale.
    Il suicida che non vede più nulla al di là della propria infelicità, non è normale.

    In tutti questi casi c'è un punto in comune: l'annullamento di una realtà. Si perde la capacità di vedere la realtà oggettiva, la bambina nell'auto scompare, il bambino che urla diventa una sveglia fastidiosa e la si getta di sotto, gli affetti, i familiari, gli amici, la speranza di un futuro migliore non esistono più e tanto vale morire.

    Solo in questo modo si possono compiere gesti simili.

    Il suicidio dovrebbe essere legalizzato? Certo.

    Se sono un malato terminale, se non ho oggettivamente speranza di migliorare la mia situazione, se il futuro che mi si prospetta è solo sofferenza e perdita progressiva del mio essere, delle mie capacità, della mia dignità, certo.

    Ma se ho una speranza oggettiva di felicità, se la vita può ancora riservarmi qualcosa, no, il suicidio non è normale, è un atto violento, un omicidio, anche se lo dirigo verso me stesso, e se lo desidero significa che sono malato, e devo essere curato.

    Chi possa curarmi, e come, è un'altro paio di maniche.

    Questo almeno è quello che penso io, ma hai ragione, è un tema complesso.

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  5. E chi lo dice che esista una speranza oggettiva di felicità? Complesso. Parecchio.

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  6. Visto che abbiamo sollevato una questione a mio avviso molto interessante, ho deciso di farci un post; sia per essere più completa nell'esposizione del mio pensiero, (almeno, ci proverò) sia per far partecipare al dibattito (si spera)un maggior numero di persone.
    Spero non avrai nulla in contrario se farò riferimento a questo tuo post e al nostro breve scambio di opinioni.

    @ Ladoratrice
    Eh già...

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  7. Già, le pur lucide argomentazioni di Giovanni crollano proprio su questo mattoncino fallace: come si fa ad asserire che esista una speranza di felicità (che per poter definire tale dev'essere 'continua', si badi) nell'esistenza di un essere intelligente? (tra l'altro oggettiva...)
    Infatti tutto si riduce in "maggiore o minore capacità di sopportazione"...
    Un esempio: annientare la propria natura umana - fisiologicamente concepita per tendere alla gratifica, come in qualsiasi altro animale - arrampicandosi in maniera dichiaratamente fallimentare nel Nirvana buddista (invece così unanimemente osannato) altro non è che un suicidio "virtuale".

    Occhio raghi che siamo in un campo minato oltre che complesso...

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  8. A parte il "raghi" che per ragioni anagrafiche rifiuto, vorrei capire perché la felicitá, per essere tale, dovrebbe essere continua. Chi lo dice, e con quali argomenti?

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  9. Infatti il punto non è decidere cosa sia la felicitá oggettiva in nome della quale agire, altrimenti si fa come i cattolici che rifiutano l'eutanasia in quanto "la vita" è un bene per la comunità. Il punto è andare contro quella cultura religiosa e filosofica per cui non esiste malattia ma punizione divina, non puó esserci cura ma solo assistenza, non esiste la malattia ma solo la libertà di essere diversi. Invece va detto che la malattia mentale esiste e un suicida o potenziale suicida ne è affetto, il suo pensiero è malato. Così come va affrontata la cura, che non deve essere segregazione o addormentamento. Dalla malattia mentale si puó guarire, non è genetica, non si nasce pazzi, lo si diventa. Circostanze, rapporti malati, coazione a ripetere.. Tutte cose esterne alla persona che la fanno ammalare ma che possono essere rifiutate, cambiate, trasformate. Con relativa guarigione.

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  10. @ Giovanni:
    anagraficamente io mi avvio verso il secolo di vita, e non ho mai pensato che ciò fosse in qualche modo connesso con il mio modo di esprimermi, così come non avrei mai pensato che in un interessante dibattito potesse essere più rilevante fare le pulci alla forma che ai contenuti, ma se per te è così importante ritiro il 'raghi' e lo sostituisco con 'signore e signori'.

    La tua domanda invece mi lascia perplesso, poiché è come chiedere perché l'amore, per essere tale, dovrebbe essere continuo, e chi lo dice e con quali argomenti.

    Beh, fà pure finta che non l'abbia detto ;-)

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  11. @Daniel:

    Ognuno di noi è diverso, per me le parole sono importanti e raghi lo trovo anche esteticamente orrendo, tutto qui.

    Per il resto: ma infatti è esattamente la stessa domanda! Perché mai l'amore, per essere tale, dovrebbe essere continuo?

    Ognuno di noi si è innamorato e disinnamorato. Il fatto che l'amore sia finito non rende meno vero il sentimento che c'era. Le persone cambiano, quindi cambia anche il rapporto, ti innamori di una ragazza per una serie di motivi, poi tu cambi e cerchi altro e lei cambia e cerca altro, e il rapporto si modifica, diventa un'altra cosa.

    Lo stesso accade con la felicità, nessuno prova una felicità continua, si è felici per delle particolari condizioni che si verificano, poi le condizioni mutano.

    Ripeto, chi mai potrebbe dire che l'amore, per essere tale, debba essere continuo, o che la felicità o è perenne o non è?

    E' strano che tu dia per scontata una cosa che è fuori dall'esperienza comune. per questo mi piacerebbe che la argomentassi.

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  12. Passo per il momento, argomenterò in un'altra vita, quando rinascerò maestro elementare... ;-)

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