giovedì 24 febbraio 2011

La miseria dell'abbondanza

E' da quando ho cominciato a scrivere qui che ogni tanto torna fuori questa idea di come il mondo sia cambiato dai tempi della mia infanzia, e mi chiedo se il cambiamento che io percepisco come peggiorativo lo sia realmente, o se si tratti semplicemente di nostalgia per i bei tempi andati, segno dell'età che avanza inesorabile, come peraltro mi fanno ben notare in altri luoghi. Non so, ma certo la differenza tra l'oggi e il prima è tanto profonda e ramificata in ogni aspetto del vivere che per trarre una conclusione è necessario cercare di capire un po' meglio da cosa derivi questa sensazione. Una delle cose che più sono cambiate, secondo me, è il significato di miseria. Una volta, la miseria era l'assenza di un bene materiale: un negozio misero era un negozio con poca merce, mobili vecchi, cose  che denotavano una mancanza di mezzi, di risorse. Per questo la prima volta che andai negli stati uniti rimasi tanto sconvolto: in una città come New York esistevano esercizi commerciali, perlopiù di grandi catene ma non solo, che certamente incassavano moltissimo e tuttavia erano trasandati, sporchi, approssimati, con tutto lo spazio disponibile riservato alla merce e solo a quella. Erano negozi altrettanto miseri, anzi di più, dei negozietti di paese della mia infanzia trascorsa nei mesi estivi nella campagna pistoiese o delle mercerie abbandonate nei lunghi pomeriggi passati a girellare tra le strade di novoli, che nei primi anni settanta era estremo periferico, per dirla alla Cattafi, ma di una miseria diversa, irredimibile perché non contiene più, in sé, la speranza in un cambiamento possibile. Il negoziante di periferia della mia infanzia ambiva ad un negozio più bello, pulito, spazioso, e se un giorno gli affari avessero girato bene certo lo avrebbe realizzato e tenuto, nella gran maggioranza dei casi, persino meglio del salotto di casa. Il lavoro infatti non era solo un mezzo per guadagnare del denaro, ma anche e soprattutto un modo per realizzarsi, un luogo in cui mostrarsi pubblicamente, un modo per coltivare la speranza nel domani. Oggi da Blockbuster sono restato incantato, come ogni volta, da quella identica miseria, da quel senso di rovina che aleggia sempre più, in Italia come nel mondo, nei nonluoghi della grande distribuzione. Dietro la facciata posticcia di lustrini e paillettes, magazzini immondi, terminali preistorici, sporcizia, mobili rotti che nessuno aggiusterà mai perché nessuno può sentire suo quel luogo, che appartiene infatti ad una entità astratta, inconoscibile, aliena. Un mondo di sottolavori sottopagati, intercambiabili, a bassissimo livello di specializzazione, con routine alienanti, corsi di avviamento, training aziendali, statistiche di valutazione e comunque precari, a tempo, a contratto, a chiamata. Posti indesiderabili in cui anche chi dovesse avere le qualità per restare ed il desiderio di farlo, resta di passaggio, a sua volta indesiderato, tollerato al più. Lavori come luoghi di transito, che appartengono a tutti, ovvero a nessuno, e di conseguenza squallidi, precocemente invecchiati, vandalizzati giorno per giorno dall'incuranza. Luoghi pieni di merce e vuoti di gioia, di cultura, di amore per ciò che si fa, qualsiasi cosa sia. Ovvio, non è certo solo colpa di chi ci lavora, ridotto a numero all'interno di una struttura dalle dimensioni incalcolabili. Quando lavori in una azienda di dieci persone e sei l'ultimo, sei il decimo: il tempo per arrivare al terzo posto è calcolabile, misurabile, rapportabile alle ambizioni e alle speranze di ognuno, il rapporto con chi siede al primo posto e decide cosa si fa il giorno dopo è un rapporto umano, se pur di lavoro, e lui stesso è parte di quella azienda, decide del tuo futuro ma anche del proprio. Se in una multinazionale sei il ventimilaequalcosesimo, sei una formica operaia e nient'altro, la scalata risulta inaccessibile, la speranza estinta, la tua vita viene decisa da persone che non vedrai mai e per le quali non esisti se non come statistica, come percentuale nei costi e ricavi, e a loro volta spesso altrettanto precarie nell'atteggiamento se non nella condizione economica, legate ai risultati raggiunti, pronte a cambiare azienda alla prima occasione, a volte con buonuscite spropositate, altre con le loro cose in una scatola di cartone. Nel mondo capovolto, l'abbondanza nasconde la miseria morale, l'irresponsabilità condivisa. 

10 commenti:

  1. Però questo significa che “scalare” è un atto positivo, che migliora il rapporto col proprio lavoro e quindi con se stessi; ma se uno da decimo diventa terzo, ci sarà qualcuno scavalcato, che quindi starà peggio… anzi: che chi è andato avanti avrà fatto stare peggio.

    Ciao
    Giacomo

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  2. La vita umana si basa, secondo me, sulla continua ricerca di un altrove (sociale, economico, geografico, sentimentale) da raggiungere,sulla speranza che questo altrove esista e che sia raggiungibile. Che esista davvero, non è così importante, e nemmeno il raggiungerlo. E' importante la speranza. Dici che in una scalata sociale chi va avanti "ruba" il posto a chi resta indietro e quindi avrebbe la responsabilità di aver fatto stare peggio qualcuno, ma forse questo qualcuno resta indietro perché ha minori ambizioni, capacità, volontà, perché magari ha interessi diversi, e chi va avanti ha solo quell'obbiettivo in mente, si impegna davvero e con successo ed il suo lavoro diventa prezioso per l'azienda. Mettiamo che due persone sposate (non fra loro) si innamorino. Certo, seguendo il loro sentimento faranno soffrire la moglie ed il marito, quindi non dovrebbero farlo? Ma anche chi viene lasciato avrà delle responsabilità se il rapporto finisce, non credi? In fondo, se fosse stata una coppia felice quello/a non si sarebbe innamorato di un altro/a. Parli di senso di colpa ma tempo fa una persona intelligente mi disse che colpa aveva a che fare col colpire. Se ti colpisco volontariamente, ok è colpa mia. Se stai male in conseguenza di azioni che ho fatto per me e non contro di te, mi dispiace ma non c'entro nulla. Ritengo Bill Gates un pazzo furioso, non lo invidio affatto e so che se non ho fatto i soldi che ha fatto lui non è solo per una diversa combinazione di impegno, talento e fortuna ma anche se non soprattutto perché a me, dei soldi, non è mai importato granché ed ho sempre pensato che un uomo che raggiunge un capitale pari a un millesimo del suo e ancora va in ufficio la mattina, è un demente. Quindi direi di sollevare Bill Gates, e l'esempio è ovviamente forzato, da qualsivoglia responsabilità quantomeno nei miei confronti.

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  3. la speranza è importante soltanto quando l'altrove sperato esiste davvero, altrimenti diventa follia...

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  4. @ Luigi: hai ragione, davo per scontato il riferimento alla realtà. Sicuramente la speranza negli ufo, in dio o in padreppio è follia. Ma l'altrove sperato può essere anche una persona, che possiamo non sapere chi sia.

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  5. la mia speranza più grande è di carattere soprannaturale: dici che devo cominciare a preoccuparmi???

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  6. L'altrove sperato puó anche non esistere, perchè chi lo ricerca ambisce trovarlo ma non puó dare per scontato che riuscirà. Secondo me la spinta sta nel desiderio che esista, quella é la vitalità che muove tutto...
    Non penso esista speranza di dio, ma fede, che non mette in dubbio, chi ha fede sa che troverà quello in cui crede.

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  7. 'Sta cosa m'ha messo un pò d'angoscia...miii....

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  8. @Giovanni: più che il senso di colpa il problema è il giudizio sociale sulle azioni di una persona e sui loro effetti e al limite la rieducazione di chi tenga comportamenti antisociali (la volontà di eccellere, a mio parere). Questo passaggio, però,
    Se ti colpisco volontariamente, ok è colpa mia. Se stai male in conseguenza di azioni che ho fatto per me e non contro di te, mi dispiace ma non c'entro nulla
    mi interessa, perché riconduce la malvagità dell’atto alla volontà diretta allo scopo.Talvolta, però, ci si rende conto che un atto che stiamo per compiere avrà, in certi contesti, certe conseguenze accessorie: se voglio eccellere nel lavoro e avrò successo, qualcuno si troverà secondo, cioè più esposto al rischio di essere cacciato e abbandonato a un destino incerto. In casi del genere, si accetta questo rischio (della sofferenza da umiliazione o da esposizione alle sventure) per sé e per gli altri: forse si pensa che il sistema o la vita siano agonistiche per natura, che lo scontro delle performance produca il bene comune, forse ci si sente semplicemente a posto perché quel rischio lo si accetta anche per noi, come in un gioco, quindi “è tutto corretto”, il fair play è salvo…
    A me fa impressione, perché è come accettare un disordine necessario, una possibilità di sofferenza…
    Discorso confuso, questo mio: dovrei ragionarci per esprimerlo meglio.

    Ciao
    Giacomo

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  9. @ Luigi: Ladoratrice ha espresso perfettamente anche il mio pensiero. La fede è una cosa, la speranza un'altra. Dal mio punto di vista la speranza in Dio è giustificata quanto quella in babbo natale.

    @ Paperplanes: Sorry ;)

    @ Giacomo: Se accettassimo come antisociale l'ambizione, ed attuassimo una rieducazione in tal senso, ci priveremmo come società di qualsiasi stimolo al progresso, accartocciandoci irrimediabilmente su noi stessi, non credi? Gli Edison, gli Einstein, i Semmelweiss di questo mondo devono avere l'ambizione di eccellere, per poter affermare idee in apparenza contrarie allo status quo. Parli di disordine necessario, ma il suo contrario, che mi pare quello che ritieni naturale, è un ordine delle cose, una natura ordinata ed elegante che non mi sembra corrispondere alla realtà fattuale. Dal mio punto di vista viviamo in un universo caotico, totalmente casuale, in cui è impensabile poter prevedere le conseguenze indirette delle proprie azioni. Forse il fatto di aver preso l'ultima confezione di fragole sullo scaffale del supermercato sfocerà in un'omicidio, chi può dirlo? Ma se si assume questa responsabilità inevitabilmente ci si costringe ad una vita nel terrore, sopraffatti dalle potenzialità di ogni nostra azione. Dal mio punto di vista di Darwinista, la natura è senz'altro competizione, noi stessi, tu ed io che parliamo, siamo il risultato della eliminazione di un quasi un miliardo e duecentomila nostre alternative possibili, ossia tutti gli spermatozoi che erano insieme a noi in quella fase primordiale del concepimento e che non ce l'hanno fatta. Ogni persona che vive, è vissuta e vivrà ha avuto le stesse probabilità di nascere che di vincere due volte il superenalotto.

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  10. Magari ritenessi l’ordine un dato naturale – o forse no, perché in quanto naturale lo considererei un limite da combattere e annientare… :-)
    La realtà purtroppo è proprio quel disordine, fatto di assegnazione casuale di potenzialità, strutture sociali e culturali che perpetuano le diseguaglianze, problemi di comunicazione fra le persone ecc.
    Dico solo che la volontà di eccellere è un movimento, forse nella direzione giusta, in questo territorio accidentato; e che sarebbe sensato cercare di studiare le eccellenze passate per imparare a riprodurle, pianificarle, coltivarle, per il bene comune – e per avere un mondo dove i desideri e le aspettative siano a misura della realtà (o viceversa), senza narcisismi, miti romantici, eroismi, poesia dell’individualità ecc.
    Poi è probabile che stia semplicemente descrivendo un mondo dove suppongo che mi sarebbe stato più agevole essere una persona migliore, ma questo attiene alle cause immediate e limacciose dei pensieri e ha solo valore aneddotico… :-D

    Ciao
    Giacomo

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