domenica 6 novembre 2011

Melancholia


Se non siete sicuri se andare o no a vedere questo film, gustatevi il video qua sopra e risparmiatevi gli otto euri del biglietto. Tutto quanto il film ha da dire, nel bene e nel male, lo trovate lì, nei primi minuti del prologo. E di cose belle, in quegli otto minuti, secondo me ce ne sono. Il problema sono l'altra ora e cinquanta minuti di film, equamente divisa in due capitoli dedicati rispettivamente al personaggio di Justine (Kirsten Dunst) e a quello della sorella Claire (Charlotte Gainsbourg). Di cosa parla, Melancholia? E' la storia di una persona (la Dunst) affetta da una profonda depressione, che alla festa del matrimonio riesce ad abbandonare il marito, a mollare il lavoro, a con uno sconosciuto qualcosa che non è neppure scopare, è solo annichilimento, implacabile autodistruzione. la cosa è più comprensibile una volta incontrati mamma e papà (Charlotte Rampling che ripete ossessivamente esci subito da qui alla figlia angosciata è agghiacciante). Justine non sa vivere, non sa più alzarsi dal letto, non sa prendere un taxi, tutto intorno a lei, persone che si muovono in un benessere che le separa dalla realtà, senza niente da fare se non girare intorno al proprio ombelico. Justine è intelligente e l'intelligenza è la sua chiave, in due occasioni se deve offendere qualcuno usa la parola stupido, perché lei stupida non è e vede quindi chiaramente che moriremo tutti con la stessa inutile chiarezza con cui riesce a contare i fagioli. La morte infatti è il tema del film, ossessione della protagonista, impersonata dal pianeta Melancholia che ci investirà. Non c'è alcun luogo dove scappare, dice Trier, da questa vita non usciremo vivi. Il che è abbastanza ovvio per una buona percentuale di noi senza che sentiamo il bisogno di urlarlo a degli sconosciuti per ore. Quando la morte si avvicina e diventa ovvia per tutti, Justine recupera una parvenza di normalità, sfoggia una razionalità che sembra renderla superiore mentre è solo il segno di un distacco da qualunque sentire, nella morte sembra trovare conforto, è ciò a cui tende e infatti la vediamo masturbarsi, di notte, alla luce del pianeta che ci investirà (a proposito, belle tette la Dunst, non ci avevo mai fatto caso). Anche il marito di Claire (Kiefer Sutherland finalmente meno bolso del solito) è molto razionale e infatti una volta avuta la prova che moriremo tutti, corre a suicidarsi nella stalla. In effetti, perché aspettare? E' davvero tutta qui la domanda che pone il film: Trier ripropone la domanda che Camus introduce nel Mito di Sisifo, ovvero se di fronte al fatto che comunque morremo, abbia senso o no rimandare il suicidio. Eppure il film offre spunti di riflessione, innanzitutto sulla depressione, che è evidentemente la forma suprema di egoismo, in cui gli altri, semplicemente, non esistono o non hanno alcun reale impatto sulla vita della protagonista. Anche nei confronti della religione, Trier sembra assumere un atteggiamento di delusione: Justine parla della vita sulla terra come "cattiva" e parla per categorie di bene/male, la madre sembra pregare a mani giunte in camera sua ma sta solo facendo stretching e, alla fine del film, Justine che ha negato alla sorella l'illusione di un senso nella bellezza ("Potremmo aspettare in terrazzo, bevendo vino e ascoltando Beethoven"), inventa una caverna magica fatta di rami per il nipotino, un luogo capace di proteggerli, e lì aspetteranno la fine, tenendosi per mano. Fine che arriva, ovviamente, incenerendoli: la menzogna magica, religiosa, dice Trier, è buona solo per i bambini. Ma il vero punto di riflessione è l'apparente incapacità del regista di farsi una ragione di un semplice dato di realtà: poiché siamo nati, moriremo. Superare questo punto e andare oltre rappresenta un passo importante nella maturità che Trier, evidentemente, deve ancora compiere.