lunedì 31 maggio 2010

Crisi.




Il mio amico Bugo ci ha fatto una canzone, il telegiornale non parla d'altro, ovunque angoscia, disperazione, gente che non sa come arrivare a fine mese, e dall'altra c'è chi si ostina a negarla, a proclamare ottimismo dicendo che non ci sarà una finanziaria correttiva, e poi vara una finanziaria da 24 miliardi di euro. Quasi cinquantamilamiliardi delle vecchie lirette. Insomma, c'è crisi. Eppure. Eppure qualcosa non mi torna, anzi meglio, non mi è mai tornato. Perché oramai, diciamocelo, di crisi ne ho viste a pacchi. Le torri gemelle, la bolla delle dot com, la stagnazione degli anni novanta, mai un momento di pace. Tutto vero, per carità, negare la crisi serve solo a chi non ha intenzione di fare niente per risolverla, per tornaconto, incapacità, indifferenza o un interessante mix delle tre. Però ieri passavo per via Gioberti, in bicicletta. Ora, via Gioberti è il luogo della mia adolescenza, uno dei posti che conosco e amo di più, ricordo ogni singola botteguccia: il mesticatore (e a chi non è di Firenze come farò a spiegare cos'è una mesticheria? Mah, vedremo), il corniciaio, il ferramenta, il pizzicagnolo (che somiglia all'alimentari ma non è la stessa cosa). Ricordo i negozi modesti, ricchi solo della loro mercanzia, le scaffalature arrangiate, i bar con i distributori di terribili palline di gomma da masticare all'ingresso e la spuma nei buchi tondi per le bottiglie. Ricordo quei bicchieri tutto vetro che per levarti la sete ne dovevi bere tre o quattro, i tavoli di formica, gli oggetti ancora legati al loro modello d'uso. Ricordo la cucina di mia nonna, i coltelli di ferro nero, pesantissimi, talmente usati che era impossibile determinarne l'età. Probabilmente se li passavano da generazioni. Mia nonna che si cuciva i vestiti da sola, coi cartamodelli, e faceva il caffè con metà orzo, per risparmiare. Oggi in via gioberti il mesticatore non c'è più, e nemmeno i bar con i tavoli di formica. Al loro posto negozi alla moda dai prezzi improponibili e locali per aperitivi sciccosi che se entri con la gazzetta ti buttano fuori e un cappuccino non se ne parla. Eppure oggi c'è crisi, e allora non c'era. Poi penso alla repubblica di Weimar e al fatto che nell'Agosto del 1923 un dollaro americano valeva 4.200.000.000.000 di marchi, e il primo Dicembre dello stesso anno viene coniato il nuovo marco, e un dollaro vale 4 marchi e 20. Cos'era cambiato? Nulla. Stessa economia, stesse fabbriche, stessi operai, stesse risorse. Ma il paese aveva ripreso fiducia in se stesso. Lo aveva fatto confidando in un pazzo furioso, è vero, ma la fiducia in un cambiamento possibile era tornata. Ora, sono dieci anni che governi di destra, da questa parte e dall'altra dell'oceano, ci inculcano ogni genere di terrore. I terroristi le bombe l'antrace l'influenza aviaria quella suina gli extracomunitari i turchi e chi più ne ha più ne metta. Perché governare una popolazione spaventata è più facile: uno che ha paura mica va tanto per il sottile. E' quando le cose vanno bene che la gente si interessa dei dettagli. Il terrore uccide la speranza, la fiducia in un futuro possibile. Ma senza fiducia, che non è l'ottimismo di plastica del venditore di aspirapolveri ma la consapevolezza di sé e del fatto che il cambiamento è possibile, la crisi è prevista, inevitabile, certa. Questa è la responsabilità più grave di questo governo: la perdita della speranza in un futuro realizzabile, sostituita dalla illusione di un futuro da tronisti o da veline. Una idea fortemente religiosa, quella di un paradiso catodico contrapposto ad un inferno che si consuma nei call center e nelle fabbriche dismesse, l'idea che il bene e il male siano fuori di noi, che per quanto uno sia in gamba è sempre la furbizia e il servilismo che valgono, le massaggiatrici in parlamento, le cortigiane a Palazzo.

Un mio amico, quando anni fa tentavo maldestramente di giocare a calcio soleva dirmi "con te bisognerebbe ripartire dai fondamentali", sottolinenando una imperizia che non era correggibile se non ripartendo da zero. Poi per fortuna mi ruppi un menisco, con grande sollievo mio e di tutti i miei ex compagni di squadra.

Ecco, la mia idea è che se non si riparte dai fondamentali, dai coltelli di mia nonna passati di generazione in generazione, dai tavoli di formica, dalla umiltà e dignità del lavoro, dalla quotidianità, non se ne esce.

Chissà che alla fine non impariamo qualcosa.

Cambiamenti.

A volte si trovano affinità elettive, persone che chiami amiche a prescindere dalla frequentazione, semplicemente perché le immagini che avete dentro sono simili, si chiamano, risuonano. Penso a questo mentre aggiungo questa immagine del mio amico Luca. E penso se davvero sia così che vanno le cose. In questo momento di rivoluzione vera, profonda, io guardo indietro e non dimentico affatto. Eppure qualcosa che era non c'è più, scomparso, perduto in un trasloco, un cambio di tono, un momento di assenza. Ci sono cubetti che si staccano dalla testa e ti aspetteresti dolore, e invece il distacco è lieve, come di pelle morta, segno che il sangue non scorreva più da tempo, da quelle parti. Cambiamento, una parola che spaventa, convinti che tutto debba restare immutabile ed invece è vero il contrario, che solo le cose morte restano immobili e finché siamo vivi non una sola cellula in noi è più vecchia di sette anni. Cubetti volano via come scatole in cui riponiamo una idea di noi stessi, e a volte ci si sveglia e l'idea non corrisponde più a quello che siamo diventati, così la scatola da scrigno diventa fardello. Cubi come stanze, case in cui trovare il proprio posto per poi perderlo di nuovo, ancora e ancora, come in un processo di raffinazione. In tutto questo la memoria resta, leggera come un dipinto di Carl Larsson. Nel frattempo cerco di tenere meno possibile, viaggio senza bagaglio e senza rete e anche se presto attenzione alla strada, faccio di tutto per non perdermi le stelle, su in alto.

domenica 30 maggio 2010

Visioni.


Ispirato dal trailer e soprattutto dalla cover di "Running up That Hill" di Kate Bush suonata dai Placebo, mi sono visto "Daybreakers". Volevo andare a vederlo al cinema, ma poi come sempre tra le mille cose da fare, gli amici che un fantahorror coi vampiri anche no, ed il fatto che certi film in sala restano al massimo una settimana l'avevo perso. Ma internet a questo serve. Mi aspettavo solo un buon fantahorror senza pretese, un tipo di film che per piacermi, siamo onesti, non deve fare poi molto. Buona fotografia, belle immagini, azione ridotta al minimo e mi hanno già comprato. Mi si compra con poco, direte. Vero. Comunque a me film tipo "I guardiani della notte" o "Dark City", per dire, mi svoltano la serata se non l'annata cinematografica. Il film in realtà non fa molto di più di quello che ci si aspettava, e mette in scena la storia di una popolazione mondiale ormai quasi completamente contagiata dal virus che trasforma in vampiri. Ma non gli zombie dissennati della (pessima) trasposizione di "Io sono leggenda" di Matheson. I vampiri di Daybreakers sono esattamente come noi, vivono in grandi metropoli perfettamente adattate al loro stile di vita, che è ormai l'unico stile di vita possibile. Le auto montano di serie dispositivi anti UV, le città si attraversano con tunnel sotterranei e un servizio di informazioni trasmette costantemente le ore che mancano all'alba. Una società efficiente, solo completamente priva di affettività, di empatia, in cui l'idea dell' homo homini lupus è portata alle sue estreme conseguenze. Una umanità disumanizzata dalla sete, dalla avidità, che è di sangue, di soldi e di potere, in modo indistinto. I vampiri sono tali perché nella loro anaffettività non riconoscono la realtà umana dell'altro da sé. In questo la pellicola non può non ricordare quel piccolo gioiello quasi autoprodotto che è "Essi Vivono", di Carpenter. Insomma un buon film con qualche idea ed una critica sociale abbastanza azzeccata seppur non originale. Ciò che invece rende originale il film è l'idea di una cura. In qualsiasi altro film i vampiri, alla fine, sarebbero sterminati in una orgia di vendetta. Qui no, anche perché vampiri sono ormai tutti, e la vendetta sarebbe sterminio, genocidio, estinzione. Invece qualcuno immagina e quindi realizza una cura, un modo per tornare ad essere umani, una strada dolorosa ma inevitabile che, alla fine del film, riporta la luce, seppure in un futuro che a noi spettatori non è dato vedere.
Un po' di speranza riesce a stupirmi. E' merce rara di questi tempi, quindi preziosa.
Anche in un filmetto senza pretese.